Dall'Introduzione:
Più di trent'anni sono trascorsi da quel 1960 che, col millenario dei Placiti campani, celebrò la pubblicazione della Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Gli strumenti di lavoro si sono moltiplicati: disponiamo di un grande dizionario storico, il GDLI di Salvatore Battaglia, ormai giunto a tre quarti del cammino; di un puntuale dizionario etimologico, il DELI di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (mentre ha superato la boa della lettera A il monumentale LEI di Max Pfister); di ampie grammatiche descrittive; di altre storie della lingua che privilegiano un periodo o un particolare approccio. Nell'età degli elaboratori è poi sempre più facile utilizzare concordanze sistematiche di testi, passando così -se metta conto farlo- dallo spoglio indicativo al regesto completo delle forme.
Non è, naturalmente, solo questione di strumenti. Nella salda compagine dei tradizionali metodi storico-linguistici sono penetrate tecniche d'indagine nuove con nuovi e diversi obiettivi, come la sociolinguistica e la linguistica testuale. E nuovi sono pure molti temi di ricerca, come l'italiano popolare, cosi volgarizzato da fornire alimento a recenti, disinvolte operazioni commerciali (indicativa la serie dei vari Io speriamo che me la cavo); o come l'italiano parlato, descritto nella sua più immediata dimensione sincronica oppure fatto emergere dalle pieghe di quei testi, appartenenti a un passato più o meno lontano, i quali siano intonati a un registro spontaneo e colloquiale.
Rispetto a un certo teleologismo della Storia miglioriniana, che -pur ricchissima di dati e materiali relativi alle varie realtà dialettali- può dar l'impresslone di guardare alle periferie linguistiche solo in quanto destinate ad essere assorbite e metabolizzate dall'egemone toscano, le varietà regionali hanno conquistato nuovi spazi. Basterà ricordare in proposito il prodotto più recente e più impegnativo di questo filone, L'italiano nelle regioni, che mette insieme le competenze di trenta autori coordinati da Francesco Bruni. Il tempo trascorso, se ha popolato la scena di altre voci, non ha però spento la voce di Migliorini. La sua Storia resta a tutt'oggi un' opera fondamentale, non fosse altro per l'attendibilità e la vastità della documentazione, in massima parte tutto dI spogli di prima mano; di una mano, verrebbe da ripetere con l'Ascoli, che non pare aver nervi. Del resto, di là da Migliorini, molti altri studiosi, storici della lingua italiana di fatto se non come etichetta accademica, sono tuttora parte attiva della bibliografia linguistica. Sarebbe difficile, ancora oggi, ignorare i saggi di Carlo Salvioni se ci si dedica all'antico lombardo o gli scritti di Francesco D'Ovidio se si studiano le correzioni manzoniane ai Promessi Sposi.
Una siffatta stabilità (che non ha riscontro in una disciplina contigua come la letteratura italiana) dovrà chiamare in causa l'oggetto di studio, il dato di partenza da cui muovere per le proprie ricerche. Per l'operatore attento ai fatti linguistici questo oggetto è ed è sempre stato il testo (s'intenda testo in accezione larga: scritto e orale, letterario e non letterario), promosso esso stesso a fine di una ricerca ovvero tenuto presente per garantire, controllare, mettere a punto le proprie argomentazioni. La centralità del testo, e il conseguente apparentamento (almeno in tutti i casi in cui il testo sia scritto) tra storia della lingua e filologia, potrebbe essere considerata una costante della disciplina qua talis. Specifica della situazione storica e culturale del nostro paese è invece l'impossibilità di tracciare rigide demarcazioni tra lingua e dialetto, e quindi la stretta comunanza tra storia della lingua e dialettologia. Non c'è forse nessuno storico della lingua che non si sia misurato con temi dialettologici. Sarebbe arduo, d'altra parte, sottrarsi a questo confronto quale che sia l'epoca o il tipo di testi studiati: le realtà geografiche campeggiano incontrastate alle origini della nostra tradizione linguistica, subiscono nel Rinascimento la pressione del toscano por mantenendo margini di reattiva autonomia, si esprimono successivamente in filoni letterari di grande fecondità, condizionano finalmente il nostro presente di parlanti immersi in un continuum che spazia dall'ormai rara dialettalità esclusiva a un pur sempre rarissimo "italiano senz'accento" attraverso una complessa gamma d'italiani regionali.
L'attenzione, doverosa, alle varietà diatopiche non può tuttavia mettere in ombra le .spinte centripete, quelle che scandiscono gli snodi evolutivi fondamentali della storia linguistica italiana: il Trecento fiorentino, la grammaticalizzazione bembiana, la riforma del Manzoni.
Andrà riconfermato, in particolare, il displuvio rinascimentale. Anche la nostra Storia della lingua italiana muove, in questo primo volume, dalla «rifondazione cinquecentesca della letteratura italiana» (por nell'ambizione - o nell'illusione - di riproporla in modo originale): il fiorentino dei grandi trecentisti codificato dai grammatici del Cinquecento e da loro trasmesso alla norma lessicografica successiva attraverso l'autorità della Crusca. Obbligata dunque la presenza di capitoli sulla lingua letteraria (prosa, letteratura in versi e tragedia; quanto alla commedia, le sue più strette connessioni col parlato e, in generale, con la lingua non codificata, ne hanno consigliato l'allogazione altrove); sulle teorie linguistiche, che tanto hanno condizionato da Dante a Manzoni gli avviamenti della prassi letteraria; sui grammatici e sui lessicografi.
Se l'italiano è diventato lingua nazionale -di una nazione che non sembra oggi ritrovare in sé altri elementi di coesione altrettanto forti-, ciò è avvenuto attraverso la scrittura. E davvero la storia della grafia conferma, nel suo particolare ambito, le linee portanti della piti generale storia linguistica. Al multigrafismo medievale corrisponde il policentrismo dialettale coevo, l'uno e l'altro livellati nel Cinquecento da forze di portata epocale (la diffusione della stampa) o da episodi circoscritti (l'opera del Salviati e il suo influsso sul Vocabolario della Crusca); l'uso incerto dell'italiano da parte delle classi subalterne dal Cinque al Novecento -uno dei temi più interessanti affacciatisi sull'orizzonte della ricerca negli ultimi anni- trova puntuale riscontro in quello che gli storici della scrittura hanno chiamato alfabetismo funzionale; il Trissino, oppositore del classicismo bembiano nella questione della lingua e nell' attività poetica in nome di un diverso modello, quello della Grecia antica, si rifà per l'appunto all' alfabeto greco nel progettare la sua contestatissima riforma ortografica.
Meno agevole, per uno storico della lingua, fare i conti con la lingua degli autori, un terreno battuto a pari diritto dagli storici della letteratura. Nessuno forse sottoscriverebbe oggi una dichiarazione scritta nel 1940 da Giacomo Devoto in appendice alla sua Storia della lingua di Roma, ove il grande linguista proclamava «un'assoluta freddezza per la personalità degli scrittori»: una dichiarazione salutare in tempi di trionfante idealismo. Negli anni successivi l'idea dell'istituzionalità della lingua (e il connesso, tradizionale parallelo tra lingua e diritto) è stata ripresa con nuove riflessioni e l'opposizione tra individuale e sociale (che è quanto dire tra innovazione e tradizione) non è più avvertita come un' alternativa bensì come una «dialettica in cui nessuno dei due antagonisti può disertare il campo senza che anche l'altro svanisca nel nulla».
L'indagine storico-linguistica, pur nella molteplicità dei punti di vista, ha qualcosa di specificamente suo da dire a proposito di testi letterari. La letteratura è stata spesso il lievito dell'italiano, come di altre grandi lingue di cultura…