Dalla Premessa
Guerra e pace non è un titolo originale. Ma non lo era neppure per Tolstoj, che lo adottò quando ormai l'originario romanzo breve, ambientato nella Russia zarista al tempo della congiura decabrista, era diventato la più straordinaria epopea della letteratura moderna. Prima di lui, in effetti, Proudhon aveva scritto un sofferto La guerre et la paix, apparso in Francia nel 1861 e subito discusso e tradotto in varie lingue. Il tema era quello annoso e controverso della "guerra giusta", della liceità di una tragedia sanguinosa per il raggiungimento di uno scopo superiore, della finalità "pacifica" di una rivoluzione. Come gran parte dei pensatori francesi del secolo XIX, Proudhon era alle prese con i significati e le eredità difficili del 1789, o meglio del 1792 e delle guerre che ne erano state il corollario. Ma il problema era di quelli che non avevano precise collocazioni in un tempo o in uno spazio; la guerra era pur sempre il soggetto più tragicamente rappresentato nella storia dell'umanità; e la pace non era soltanto l'assenza di guerra. In un periodo di forti turbolenze politiche e sociali, quel testimone trovava molte mani pronte a riprenderlo. Tolstoj fu puntuale all'appuntamento. Cosicché il più grande romanzo storico moderno fissava nel suo titolo, in modo per noi definitivo, quel sintagma antico che da sempre induceva a cercare una morale per la guerra e un senso per la pace.
Guerra e pace, di là dalla riflessione filosofica o dalla trasfigurazione letteraria, rimangono condizioni storiche e dimensioni dell'esistenza, e, nelle loro correlazioni particolari, offrono una visuale per indagare la vita, cioè le condizioni materiali e la cultura, di un popolo. Sono cioè territori buoni per la storia. Su di essi si muove questo volume, che ha lo scopo di assumere alcuni rapporti meno evidenti e consueti tra guerra e pace per fare storia, cioè per offrire un'ulteriore possibile interpretazione della fisionomia degli italiani.
La scelta di questo tema non è casuale. Fra le molte peculiarità della storia italiana, infatti, anche la relazione fra la guerra e la pace è parsa eccentrica rispetto ad altre esperienze europee. Tanto che anche l'attività degli storici ne è rimasta condizionata.
È un dato di fatto che molto spesso, tradizionalmente, la storiografia si è limitata alla citazione di date e avvenimenti che hanno scandito l'alternanza di guerre e trattati, elevando a personaggi "storici" coloro che avevano avuto parti da protagonisti in queste vicende. Vincitori e vinti hanno costituito fino alla prima metà del secolo XX le categorie fondamentali della grande Storia: popoli e civiltà ne hanno soppiantato altri, lasciando tracce monumentali delle loro vittorie e delle loro sconfitte, stratificando culture dominanti con culture dominate e sovrapponendo occasioni mancate ad altre adeguatamente sfruttate. Lasciando anche trasparire dietro una storia ineluttabile e fattuale un'imprecisata quantità di esiti virtuali.
Spesso le tradizioni di un popolo, il suo stesso modo di definirsi, di rappresentarsi, di esaltarsi di fronte al barbaro o al vicino, si sono basate su questo percorso di guerra, sottolineando, accentuando o inventando una presunta superiorità desunta dalla partecipazione più o meno frequente, e alternativamente vittoriosa, ai grandi conflitti che hanno di volta in volta deciso la Storia. Realtà e mito si sono cosi intrecciati fino a sedimentare interpretazioni correnti, comuni modi di sentire, visioni condivise che hanno non di rado costituito l'elemento certo e indiscusso di molta storiografia. Vittorie e sconfitte hanno suggerito alle più diverse società di tendere solidi fili fra i presunti caratteri originari di un popolo e i suoi destini sul terreno dei grandi conflitti internazionali; il significato stesso di "nazione" sembra non aver potuto fare a meno di un suo intrinseco e costitutivo bagno di sangue, proprio e altrui. E molto dello spessore attribuito al termine "tradizione" si è nutrito, analogamente, di questi valori guerrieri.
Su questo terreno molta storiografia si è trasformata in retorica, in pedagogia nazionalistica, o nella lezione di partito. Non è da stupirsi se queste visioni particolari, cioè costitutive di una parte, tendenti a suggerire un tracciato storico piegato a interessi di fazione o di gruppo, abbiano lasciato sedimenti storiografici tutt'altro che preoccupati di fornire le prove della propria argomentazione. Né, d'altronde, ci si può sorprendere se la pluralità delle visioni storiografiche, ben altrimenti che significare ricchezza di documenti e di ipotesi interpretative, si sia spesso risolta in una rancorosa resa dei conti fra partiti - e dunque fra "storie" - alternativamente prevalenti. Non è soltanto questione che riguardi il nostro tempo; Dionigi di Alicarnasso supponeva che Tucidide avesse scritto mosso da rancore verso la città che lo aveva esiliato). E non mancava di argomenti per affermarlo.
Guerra e pace, dunque, non sono soltanto porte di ingresso per la decifrazione dei grandi momenti di frattura o di sutura di una civiltà, o di una società. Ma sono anche grandi contenitori di notizie distorte, di fisionomie ritoccate ad arte, di messaggi criptati o apertamente propagandistici. Farsi largo tra questi ostacoli è un'ulteriore sfida che una storiografia sensibile all' onere della prova deve raccogliere.