Dalla Presentazione:
Quando, all' aprirsi degli anni Novanta, cominciammo a discutere intorno alla possibilità di preparare una storia degli ebrei in Italia con la collaborazione di diversi studiosi, si parti dal presupposto di non ricostruire in «vaso chiuso» le vicende di una minoranza, bensì di studiarle, per quanto possibile, entro l'ambito in cui esse si erano svolte per arrivare a comprenderne piu compiutamente i molteplici intrecci. Pensavamo che un'opera cosi concepita avrebbe anche contribuito a illuminare di scorcio il passato del paese di cui, per tanta parte, gli ebrei avevano condiviso le sorti: in tal modo la storia degli ebrei in Italia poteva diventare una pagina chiarificatrice della stessa storia d'Italia.
Altro era stato il proposito che aveva mosso, più di trent'anni or sono, Attilio Milano: nella sua sintesi pionieristica, che tanto ha contribuito a dare impulso a nuovi studi, aveva scelto di dare risalto piuttosto «alle differenze con l'ambiente dintorno che non alle affinità, più ai contrasti che alle armonie». Certo, quelle differenze e quei contrasti avevano avuto un peso determinante nella storia degli ebrei -in Italia, come in generale nella diaspora- e senza dubbio quell'ottica aveva allora una ragione di essere: dare consapevolezza di una determinata peculiarità ebraica poteva avere un valore non solo storiografico, ma civile, quando sulla memoria personale di ogni ebreo gravava in modo cosi insopportabile la tragedia della So'àh da indurlo spesso a cercare di rimuoverla. Insieme, non di rado, sbiadiva il senso stesso dell'ebraicità.
Oggi è ragionevole pensare che il fiorire di studi sul passato ebraico, come pure la notevole memorialistica pubblicata di recente rivelino l'affiorare di una cultura capace di far superare sia quelle comprensibili remore psicologiche, sia -almeno in parte- lo iato fra memoria collettiva e storiografia moderna, indicato da Yerushalmi nelle pagine finali del suo magistrale Zakhor: quanto meno nel senso che, se è vero che la memoria è selettiva, mentre è ambizione degli studiosi di storia approssimarsi alla totalità del passato, nondimeno al centro del nostro interesse è la possibilità di capire in che modo un plurisecolare retaggio culturale può sussistere e avere valore nelle condizioni in cui si è trasformato il mondo in cui viviamo. Fino a quando è esistito un nesso organico tra fede religiosa ed ebraismo, non ci sono stati problemi per riconoscere la peculiarità di quest'ultimo; fra i due termini, se mai, vi è stata quasi totale identificazione, al punto che lo studio del passato ha finito non di
rado col darne una visione provvidenzialistica. Ma fin dalla seconda metà dell'Ottocento, quel rapporto è entrato in crisi: «gli ebrei - ha osservato Isaiah Berlin - presentavano uno spettacolo quanto mai anomalo», perché era divenuto difficile definirli «alla luce di concetti quali nazione, razza, associazione, religione o con altri termini che servono comunemente a descrivere gruppi coerenti di un certo tipo ereditario o tradizionale».
Si è assistito così a un duplice paradosso: da un lato, proprio chi pensava necessario cancellare le vergognose ingiustizie inflitte agli ebrei nei secoli passati intendeva si riconoscere ai singoli la libertà di manifestare la propria differenza, ma al tempo stesso riteneva di dover negare una precisa identità al gruppo da loro costituito (e di questo atteggiamento è stata ancora espressione clamorosa l'asserzione di Benedetto Croce sulla necessità per gli ebrei di «fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli»); dall' altro, le persecuzioni che contro gli ebrei si sono scatenate nel nostro tempo non hanno più avuto la loro prima radice in motivazioni religiose, ma sono state promosse da ideologie e forze politiche esasperatamente nazionalistiche.
Anche da parte ebraica si erano manifestate alcune contraddizioni. Mentre l'emancipazione favoriva la spinta all' assimilazione con il mondo esterno, il tentativo di dare una memoria storica agli ebrei si traduceva -fin dal secolo XIX, a cominciare dai dibattiti e dagli scritti dei promotori della Wìssenschaft des Judenthums- nello sforzo di offrire del passato ebraico un'immagine non troppo dissimile da quella assunta dalle varie nazioni d'Europa attraverso l'opera della contemporanea storiografia romantica. La storia degli ebrei o, come spesso si è preferito dire, del popolo ebraico presupponeva un'unità del soggetto che era tutta da dimostrare ma nei moduli e negli schemi adottati per ricostruire le vicende di altri popoli, rimasti spesso a loro volta per secoli «un volgo disperso che nome non ha», si ritrovavano esempi di procedimenti ritenuti capaci di illuminare l'impresa a cui ci si voleva accingere: lo studio delle vicissitudini che erano alla base della «alterità» ebraica intendeva superare una condizione di inferiorità rivendicando il diritto degli ebrei -come aveva scritto nel 1846 Heinrich Graetz - di avere una propria storia, fino allora negata dalla «storiografia cristiana in quanto, dopo la distruzione del secondo Tempio, essi non avevano più avuto una loro peculiare entità politica cui riferirsi.
Oggi lo stretto nesso fra storiografia ed esistenza di istituzioni statuali, implicito in quella visione del passato, non ci appare più un requisito necessario: da tempo lo studio della società, delle società esistite, non è terreno di ricerca riservato alle sole scienze sociali, e la storia si è grandemente avvantaggiata dei nuovi campi di indagine che le si sono aperti. Così, anche la storia degli ebrei può andare oltre l'ambito che aveva fatto attribuire importanza prevalentemente a fattori giuridici e politici, per articolarsi invece nello studio del loro modo di essere e di operare, senza trascurare i più complessi rapporti creatisi con le varie popolazioni dei paesi in cui abitavano. …