Fin dove si spingono le radici del letterario? Anche se si accetta la distinzione, valida per noi fino ad un certo punto, tra letterario e letteratura, e s'insiste sulla seconda nozione, più organica e strutturata della prima, si dovrà ammettere che tali radici scendono a grande profondità e si ramificano in direzioni molteplici e assai diverse fra loro. Lo spessore di questa profondità e l'ampiezza e molteplicità di questa ramificazione si collocano fra quei tali «fattori costitutivi» di una letteratura, che andrebbero misurati in termini di rilevazione antropologica. Voglio dire che, al di là di certi confini che il mondo specificamente culturale e intellettuale si è dato, si verifica una vera e propria ricomposizione dell'essere, un venirsi incontro e un entrare in contatto o in frizione di molteplici fattori genetici di natura sostanzialmente diversa. Del resto, in una visione del genere, è evidente che, ad essere rimessi in discussione nelle loro strutture rigide autenticate dalla tradizione, sono innanzitutto tali confini, le recinzioni e gli steccati protettivi, dentro cui le culture e le letterature si sono costruite, prendendo a modello ogni volta i propri precedenti immediati o remoti. Questo non significa affatto - sarà opportuno precisarlo subito - che questa attività di automodellazione non abbia avuto una funzione precisa, anzi essenziale, nella determinazione dei fenomeni di cui ci stiamo occupando: resta innegabilmente vero che l'universo della letteratura, iscritto a sua volta dentro quello della cultura, si presenta sempre contraddistinto da regole e procedure molto precise, in qualche modo anche autogenerantesi l'una dall' altra, che lo rendono da questo punto di vista una porzione altamente significativa e anche un po' separata dell'universo della comunicazione umana. Un conto, però, è considerare queste" regole il frutto inevitabile e positivo di un' accumulazione storica di codici, prodotta, a sua volta, da un'attività sommamente formalizzata, che persegue come obiettivo suo proprio e più peculiare la costruzione di un mondo autosufficiente e autogiustificantesi (la letteratura come « discorso formale - per sé», voluto e apprezzato come tale); altro conto è, sulla base delle osservazioni precedenti, arrivare a perdere di vista che esiste un intreccio fra il mutamento di quelle regole e il mutamento antropologico complessivo, e che, in quell'intreccio, in buona parte, va cercato, individuato e studiato il canale attraverso il quale passa il mutamento anche letterario.
Questa persuasione si potrebbe esprimere anche in quest'altro modo: non può esistere, e infatti non è mai esistita, una nuova, grande letteratura, senza la fondazione nelle cose e, conseguentemente e talvolta in un secondo e più lontano momento, la percezione culturale e intellettuale di una nuova antropologia. Tale tesi, valida ovviamente soprattutto nei momenti di grande snodo (e tra questi, ancor più ovviamente, quello delle «origini» è il più significativo ed esaltante), si potrebbe però riscontrare quasi in ogni momento nell'evoluzione storica delle diverse forme di civiltà, e persino (o forse soprattutto, come dovrebbe risultare evidente dalla nostra esposizione successiva) nell' esperienza personale, nella crescita magmatica e carica di tensioni dei singoli individui scrittori. Lo strato di giudizi e di pregiudizi, depositato su di noi da un'esperienza critica e storiografica lunga ormai alcuni millenni, è talmente profondo, infatti, che noi siamo portati a confondere le« immagini» già sistematizzate dei movimenti e delle persone con la realtà dello svolgimento di processi, all'interno dei quali il livello di autoidentificazione era per forza di cose molto più basso di quello che noi, con il senno di poi, siamo portati ad attribuirgli. Questo, per le grandi categorie storiografiche - niente di più, in verità, che «gabbie concettuali» gigantesche, dentro le quali raccogliere e sistemare i frammenti polverizzati del cosmo della memoria e dell' erudizione filologica -, produce risultati di solare evidenza. Mentre esse erano state elaborate in origine allo scopo, fondamentalmente, di leggere meglio, o anche solo più facilmente, una serie di fenomeni animati per conto loro da una dinamica centrifuga, hanno finito per calarsi al posto dei materiali, dei quali rappresentavano l'ipotetico collante, l'unico a posteriori capace di tenerli insieme, e per diventare l'oggetto di studio privilegiato d'intere generazioni di critici e di storici. È appena il caso di ricordare, ad esempio, che la definizione «scrittore del Rinascimento» è un'astrazione azzardata, a stento tollerabile sul piano dell'analisi scientifica, e del tutto a posteriori, visto che, in pratica, non esiste nessuno scrittore che abbia mai saputo di essere stato «del Rinascimento» (mentre tutti sapevano, certo, d'essere una quantità di cose diverse, determinate e spesso in contraddizione fra loro); e che pure, in una grande quantità di casi, la ricostruzione storica della letteratura non ha saputo essere nient'altro che la convalida, o magari la pura e semplice negazione (l'Antirinascimento accanto o al posto del Rinascimento), del modello storiografico, di cui quella definizione costituiva un eccellente esempio.
Ma anche per i singoli scrittori è valsa una logica non molto diversa. Quanti fra loro non sono stati giudicati, ponendo su due serie perfettamente parallele e del tutto incomunicabili la formazione letteraria e l'esperienza umana e contrapponendo la cultura alla vita, la letteratura al corpo, la riflessione all' emozione? Per un'infinità di scrittori e di artisti sono state necessarie contorsioni critiche inenarrabili per cercare di mettere d'accordo le loro idee con la loro opera, quando forse sarebbe stato sufficiente prestare attenzione alla natura diversa del loro occhio, al diverso rapporto instauratosi nel loro cervello tra conoscenza analitica e immaginazione, persino al modo diverso con cui vivevano il loro personale eros. Che questo insieme di fattori pervenga ad un certo punto a quel livello in cui l'elaborazione culturale e intellettuale lo sistema e gli dà forma, io lo do per scontato: mi pare però che si sia troppo dimenticato che anche il letterato, come ciascun uomo, ha un solo cervello e un solo corpo, e che questo cervello e questo corpo entrano tutti e due e per intero nel processo di formazione del letterario, come in un percorso che ha livelli e fasi diversi, ma resta al dunque unitario. Dire perciò che esiste un livello dell'elaborazione letteraria, in cui il problema di «dar forma» alle cose è prevalente, non significa dire che solo a quel livello la cosa comincia a prender forma. La cosa ha già una forma (non necessariamente la stessa che nella fase conclusiva) al livello delle radici.
Ciò che abbiamo definito « base antropologica della letteratura» è dunque questo universo di sentimenti, emozioni, percezioni del reale, valori, comportamenti e, si, anche concetti, prima che sia consapevolmente organizzato in una teoria e orientato secondo un punto di vista: un sistema, insomma, di relazioni vitali, intenzionato, nel caso nostro, alla produzione letteraria, ma dotato contemporaneamente, come è ovvio, di molti versanti e di molti sbocchi, visto che a quel livello il sistema non può che essere uno, anche se pronto a diversificarsi nelle funzioni umane più diverse.
Questo sistema è, da un certo punto di vista, estremamente mobile, poiché la sua stessa finalizzazione - qualunque essa sia, e possono essere molte (nel caso nostro, la produzione letteraria) - è attirata nel sistema di relazioni, non è un «poi» condizionato da un ipotetico «prima», ma ne fa parte; e, da un altro punto di vista, è al limite veramente totale, tende cioè a identificarsi, anzi a coincidere con quell'individuo vivente e inconfondibile, che è l'uomo.
Naturalmente, come in tutti i ragionamenti in cui si cerca di svincolarsi dagli automatismi degli schemi, anche in questo bisognerebbe arrivare a concludere che l'unica base veramente significativa d'indagine è quella rappresentata dal singolo individuo, dall'uomo. In realtà, poi, in questo come in altri casi, le ricostruzioni di carattere storico-letterario e storico-culturale sono il frutto di una buona media statistica, che tiene conto della prevalenza di certi fenomeni rispetto ad altri: categorie celebrate come «l'uomo del Rinascimento» (che sottende e in qualche modo giustifica quella di «scrittore del Rinascimento») poggiano, in fondo, proprio su generalizzazioni siffatte. Ma è vero che, man mano che si risale la scala della significatività dei fenomeni letterari, il «principio individuale» acquista forza e fisionomia. L'« uomo del Rinascimento» è il prodotto della generalizzazione statistica di fenomeni antropologici e culturali sufficientemente significativi: in natura non è dato incontrarlo, se non ci si applica a individuare una serie di diversità, attraverso la quale una moltitudine di soggetti individuali, tutti differenti, possa essere ricondotta al modello astratto e in questo integrata.
Anche «Francesco Petrarca» potrebbe essere ed in effetti spesso è un'astrazione, frutto del lavorio della tradizione su se stessa. Non v'è dubbio, tuttavia, che quella sintesi di problemi intellettuali ed umani, a cui alludiamo usando la denominazione «Francesco Petrarca », possa essere ricondotta più facilmente alla concretezza di un'esperienza individuale reale…